Lo zafferano è una spezia che si ottiene dagli stimmi del fiore della specie Crocus sativus, del genere Crocus il quale appartiene alla sottofamiglia delle Crocoideae, alla famiglia delle Iridacee, all’ordine delle Asparagales, al clado dei monocotiledoni e delle angiosperme, al regno delle Plantae e al dominio Eukariota. Ma che cosa sono tutti questi nomi astrusi di famiglie, generi, sottofamiglie, ordini? Si chiama tassonomia. Ma perché è così importante e cosa ci dice della storia naturale dello zafferano? In realtà tutto, ma per comprenderla conviene andare a ritroso.
La classificazione tassonomica è lo strumento che utilizziamo per collegare e spiegare le storie di tutti gli esseri viventi e come essi sono tra loro imparentati: in altre parole, la loro evoluzione. Nessun essere vivente nasce dal nulla, ma è il risultato di un processo ramificatosi da un antenato comune a tutti. Questo antenato ha un nome: LUCA (Last Universal Common Ancestor), probabilmente un minuscolo batterio primordiale. Circa due miliardi di anni fa da LUCA si separarono due domini: da un lato i Procarioti, progenitori di organismi semplici come batteri; dall’altro gli Eucarioti, che comprendono gli organismi complessi come piante e animali. È a questo dominio che apparteniamo noi, insieme allo zafferano.

Per milioni di anni la vita rimase acquatica, finché circa 400 milioni di anni fa alcune alghe riuscirono a colonizzare la terraferma, dando origine al regno delle piante. Per altri milioni di anni l’unico colore delle piante del mondo fu il verde, fino a quando, circa 130 milioni di anni fa, nel Cretaceo inferiore, gli antenati dello zafferano iniziarono a colorare il paesaggio dei dinosauri. Fu allora che il clado (dal greco kládos = ramo) delle angiosperme si separò dalle altre piante, dando vita ai fiori: un nuovo e straordinario adattamento evolutivo, concepito per massimizzare la propagazione del polline grazie all’azione degli insetti impollinatori.
All’interno delle angiosperme si sviluppò il clado dei monocotiledoni, chiamati così perché germinano con una sola fogliolina embrionale. Hanno inoltre una caratteristica costante: le parti florali in multipli di tre. Lo zafferano, infatti, presenta tre stimmi, tre stami e sei petali. Circa 120 milioni di anni fa nacque l’ordine delle Asparagales, piante erbacee perenni, e da questo, circa 80 milioni di anni fa, la famiglia delle Iridacee, caratterizzata da bulbi sotterranei e foglie lineari appuntite.
In Nordafrica si sviluppò poi la sottofamiglia delle Crocoideae, che cominciò ad assumere un aspetto molto simile al fiore che conosciamo oggi: bulbi avvolti da tuniche fibrose, fusti brevissimi ipogei, fiori protetti da spate membranose fino alla fioritura, tre stami maschili e uno stilo filiforme che si divide in tre stimmi. Da qui nasce il genere Crocus, che si diffuse dal Nordafrica all’Egeo, dal Medio Oriente fino all’Asia centrale, sviluppando straordinarie capacità di resistenza: dai +40 °C delle pianure africane ai –20 °C delle vette montane. Bassi e slanciati, i fiori di croco si aprono in un ventaglio di colori che va dal bianco al lilla al viola, con tre stami gialli (maschili, produttori di polline) e tre stimmi femminili.

Ma solo un membro di questa famiglia è diventato la spezia più preziosa del mondo: la specie Crocus sativus, il croco addomesticato. “Sativus” infatti significa coltivato, e questa domesticazione avvenne probabilmente intorno al 1600 a.C. a Creta, a partire dal Crocus cartwrightianus (dal nome del suo scopritore John Cartwright). Il termine crocus deriva dal greco kròkos, “filo di tessuto”, allusione agli stimmi lunghi e sottili come fili preziosi. La prima attestazione letteraria di questo nome è in Teofrasto di Efeso (371–287 a.C.), filosofo e botanico, discepolo di Aristotele. Ma il fiore era già noto molto prima: nell’Iliade (XIV, 347) Omero descrive così l’aurora
“Ἠὼς δ᾽ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,
χρυσοθρόνος, καὶ κροκόπεπλος ἐνθάδε κείνη”
La traduzione è:
“E apparve l’Aurora dalle dita di rosa,
dal trono d’oro, con un manto color zafferano.”
Mentre gli affreschi minoici di Cnosso e quelli dell’isola di Akrotiri – poi distrutta dal cataclisma vulcanico – raffigurano figure femminili intente alla raccolta dei fiori. Una testimonianza che ci restituisce l’immagine di un mondo antico che camminava davvero tra campi di crochi in fiore, affascinato da quei sottili fili rossi che ancora oggi incantano per bellezza, fragranza e potere evocativo.

In seguito i Greci elaborarono due leggende per spiegare l’origine dello zafferano. Nella prima, il giovane Croco si innamorò della ninfa Smilace: lei inizialmente ricambiò le sue attenzioni, ma ben presto se ne stancò e lo trasformò in un fiore. La storia ci è tramandata da Apollodoro nella Bibliotheca (I sec. a.C.) e da Ovidio nelle Metamorfosi (I sec. d.C.). Nella seconda versione, riportata da Galeno nei secoli successivi, Hermes colpì per errore con un disco l’amico Croco e lo uccise; per ricordarlo lo trasformò in un fiore, tingendo i suoi stimmi del rosso del sangue versato.
Intanto, anche gli antichi Egizi conoscevano e apprezzavano questo fiore straordinario. Gli studi sui profumi e sugli unguenti, basati su ritrovamenti nei templi e nelle tombe, hanno rivelato l’uso di spezie rare come lo zafferano nei rituali e nei cosmetici. Alcuni sostengono che fosse impiegato perfino nelle pratiche funebri, mescolato a resine e oli durante l’imbalsamazione, per preservare i corpi e prepararli all’eternità.
Dalla Grecia il croco passò a Roma, dove conquistò un ruolo di primo piano nella vita quotidiana e nell’immaginario. Virgilio lo evoca nei suoi versi come fiore che colora e profuma i campi, simbolo di bellezza naturale; Ovidio lo inserisce nelle Metamorfosi attraverso il mito di Croco e Smilace, attribuendogli un significato mitologico e amoroso; Marziale lo ricorda in contesto festivo, raccontando come lo zafferano venisse sparso nei teatri e negli spazi pubblici per inebriare l’aria durante gli spettacoli; Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, ne descrive invece gli usi medicinali, sottolineandone le virtù lenitive e aromatiche, particolarmente utili per la cura degli occhi.
Grazie al suo colore brillante, lo zafferano veniva utilizzato per tingere i tessuti che avvolgevano patrizi e imperatori nelle occasioni solenni. Le matrone lo usavano nei cosmetici e nei profumi, spruzzandolo sui capelli, nei talami nuziali, perfino nei teatri e sui roghi funebri.

Pedanio Dioscoride, medico greco vissuto a Roma sotto Nerone, nel De Materia Medica lo descrive come “digestivo, rilassante, piuttosto astringente e diuretico”, ottimo se bevuto con il passum per alleviare gli “stravizi”. Ma avverte anche: “può uccidere una persona, se se ne bevono tre cucchiai colmi con dell’acqua”. Un rimedio potente, quindi, ma da maneggiare con cautela.
Nelle terme, cuore della vita pubblica romana, lo zafferano veniva sciolto nell’acqua per profumarla e lenire corpo e mente. Galeno ne lodava le virtù terapeutiche e ne consigliava l’uso nei bagni rilassanti. Non solo: l’aroma dello zafferano, diffuso negli ambienti tramite bracieri e oli essenziali, rendeva l’esperienza termale ancora più raffinata. Nei palazzi imperiali, poi, era cosparso su cuscini e letti come simbolo di ricchezza, per favorire il sonno e sollevare lo spirito. Plinio il Vecchio lo descrive come profumo prezioso delle case patrizie, utile a rinfrescare e rinvigorire.
Naturalmente non mancava in cucina. Sciolto nel vino, lo rendeva aromatico e sensuale, e nella raccolta di ricette di Marco Gavio Apicio compare più volte, soprattutto nel celebre Conditum Paradoxum: una salsa a base di vino, mele cotte, datteri e zafferano, fatta sobbollire lentamente fino a diventare un condimento denso e profumato.
Ma perché oggi lo chiamiamo “zafferano” e non “croco”, come si è fatto per millenni? Oggi distinguiamo i due termini: “croco” indica la pianta nel suo complesso, mentre “zafferano” si riferisce specificamente alla spezia, cioè agli stimmi essiccati. La parola croco deriva dal termine semitico karkuma (da cui deriva anche “curcuma”), che significa “giallognolo”. I Greci lo adottarono trasformandolo in kròkos, da cui il latino crocus. Diversa è invece la storia del termine “zafferano”, che affonda le radici nel persiano zaʿfarān (dalla radice asfar, “giallo”), poi ripreso dall’arabo za’faran. Ed è proprio per il tramite arabo che il termine si impose in Europa, oscurando progressivamente l’antico nome greco-latino.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), con il collasso dell’economia antica anche la coltivazione di spezie di lusso come lo zafferano conobbe un brusco arresto, quasi scomparendo nell’oblio. In Oriente, invece, la sua produzione non si interruppe: sopravvisse nei territori dell’Impero Bizantino, dell’Impero Persiano Sassanide e poi, dal VII secolo, si diffuse nel mondo arabo, che ne apprese la coltivazione e ne custodì il nome. Nel 961 d.C. gli Arabi invasero la Spagna dall’Africa settentrionale, reintroducendo in Europa la coltura dello zafferano insieme al nuovo termine za’faran. Da qui si diffusero i nomi ancora in uso nelle varie lingue europee: azafrán in spagnolo, safran in francese e tedesco, saffron in inglese, zafferano in italiano.

Ma come tornò in Italia lo Zafferano? Una tradizione vuole che in Italia lo zafferano sia tornato grazie a un monaco domenicano della famiglia Santucci di Navelli. Intorno al 1230, inviato a Toledo per un concilio della Santa Inquisizione, il monaco – grande appassionato di botanica – rimase affascinato dalla pianta e riportò con sé alcuni bulbi in Abruzzo. Nella piana di Navelli li piantò e ne avviò la coltivazione, dando origine alla più antica produzione italiana di zafferano tuttora esistente, che da lì si diffuse nuovamente in tutta la Penisola.

Di lì in avanti lo zafferano divenne parte integrante non solo del paesaggio agricolo, ma anche della vita sociale ed economica europea. La sua coltivazione e il suo commercio erano così preziosi da essere regolamentati in norme specifiche: negli Statuti comunali di Perugia del 1279, ad esempio, si vietava ai forestieri di coltivarlo senza autorizzazione, a testimonianza di quanto fosse considerato un bene strategico.
Parallelamente, lo zafferano entrò stabilmente nella sfera medica e alimentare. Nei Tacuinum Sanitatis, manuali illustrati di medicina e dietetica prodotti tra XIV e XV secolo e derivati dalla tradizione araba, veniva elogiato per le sue proprietà analgesiche e rilassanti: calmava i dolori addominali e mestruali, favoriva il sonno e agiva come un sedativo leggero. Già Avicenna, nel suo Canone della medicina (XI secolo), aveva scritto che lo zafferano era in grado di “rallegrare l’umore”, tanto da essere prescritto per stati di ansia e malinconia.

Ma lo zafferano non era solo medicina: era anche cucina, profumo e colore nei piatti del tardo Medioevo. Mastro Martino da Como, uno dei più grandi cuochi del Quattrocento, nel suo Libro de Arte Coquinaria lo cita in numerose ricette, dai brodi aromatici alle creme dolci. Lo troviamo ad esempio nel “brodo giallo”, dove unisce cannella, zenzero e zafferano per dare colore e vigore al piatto, o nella preparazione del “biancomangiare”, pietanza raffinata a base di pollo, mandorle e zucchero, resa dorata e profumata proprio grazie ai preziosi stimmi. Una spezia che attraversava i confini tra medicina e gastronomia, tra lusso e quotidianità, diventando sempre più simbolo di ricchezza e raffinatezza.
Così, dalla mitologia greca alle cucine dei grandi signori rinascimentali, passando per le tombe egizie e le terme romane, lo zafferano ha costruito nei secoli una storia unica: quella di un fiore fragile e insieme tenace, che ha colorato riti, piatti e sogni dell’umanità, fino a diventare la spezia più preziosa del mondo.